Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (III)

Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (III)

20 ottobre 2009

10:20, siamo tutti in classe. Il professore arriva puntualissimo. La volta scorsa non avevamo fatto l’immancabile giro di presentazioni, rimediamo brevemente adesso: Kawada (cognome) Takuya (nome), Nakajima … non riesco a sentire il nome: l’aula è grande, e i miei colleghi parlano pianissimo. In realtà non è un grosso problema: in Giappone, per le esigenze della vita di tutti giorni, i nomi propri possono essere tranquillamente ignorati. E comunque, anche conoscendo il suono di un nome non si può mai essere sicuri di come sia scritto. Vale anche il discorso contrario: vedendo solo i segni di un nome proprio, nessuno può essere sicuro di quale sia la pronuncia. Di fianco a me, Hashimoto. Io penso sia importante farsi almeno sentire, e parlo a voce alta; sarò per questo considerato arrogante?

In ogni caso, si inizia.

– Kawada-san, prego. Prima leggiamo.
– La maîtrise du bien.
– No, più su.
– Les biens et les services.
– No, il testo inizia più su.
– Chapitre douze.
– Bene.
– Les biens et les services. Un. La maitrîse du bien. Le rapport…
…e leggiamo il primo paragrafo. Primo problema di traduzione: «maitrîse». Kawada è in difficoltà, ed il professore riconosce che in effetti è una parola difficile da tradurre. Accenna all’etimologia «maître», propone un paio di termini, poi dice che volendo usare una parola un po’ datata si potrebbe dire «ujiru». Tutti abbozzano una risata. Io no. Non capisco. Mi accennano di buoi e orecchie, o così mi sembra, e continuo a non capire. Hashimoto mi mostra il suo dizionario elettronico alla schermata di «gyûjiru», tre caratteri: gyû, cioè ushi, bovino, ji, cioè mimi, orecchio, e la desinenza verbale -ru. Lo cerco subito sul mio dizionario giapponese-italiano. Il lemma c’è, ma non la definizione, solo due esempi: «1. Avere il controllo di una ditta 2. A casa sua comanda la moglie/La moglie lo domina». Capisco. Ad ogni modo, la traduzione più appropriata di «maitrîse» è tôgyo.

Proseguiamo. Un’incertezza su «éclat» viene risolta facendo riferimento alla versione italiana «pietra scheggiata», e cerco di spiegare facendo ricorso ad abbondante gestualità che forse in questo caso l’autore si riferisce alle punte delle frecce e gli altri attrezzi in pietra usati dagli uomini primitivi, o che almeno questa è la mia impressione. Chiedo come si debba tradurre il francese «chose», e se scriverlo in kanji o in hiragana. Il kanji di «butsu» va bene, mi dice il professore.

Sono le 11:12 e tocca a me: «La chose peut servir pour des nécessités extra-économiques, et peut être liée…». Finisco di leggere il testo in francese, prendo gli stampati della mia traduzione, preparata nei giorni precedenti, e leggo. Uno dei primi termini è proprio «chose». Pronuncio «butsu», ma sbaglio, perché in ogni caso bisogna pronunciare mono anche se, come viene osservato, può dare luogo a fraintendimenti, avendo lo stesso suono di mono di «persona». Il dettaglio che però provoca il disorientamento maggiore in tutto il paragrafo è il soprabito. In effetti, avevo ricevuto le medesime domande dalla mia vicina Hashimoto nei minuti di attesa prima dell’inizio della lezione: perché il regime giuridico della tomba viene accostato a quello del soprabito? Cos’ha di speciale il soprabito? Quali sono i significati sottostanti a questa scelta? Dal momento che si tratta di questioni riguardanti il passo che ho letto io, compete a me rispondere, almeno in prima battuta. Rispondo che, beh, secondo me non c’è nessun significato particolare, mi pare un esempio scelto a caso, un oggetto di uso quotidiano come potrebbe essere una matita o una borsa. Capisco che la retorica assume forme lievemente diverse, sull’isolotto.

Il mio turno finisce alle 11:26, ed il giro riprende con Kawada, che legge le 4-5 righe successive. Sto sempre molto attento alla traduzione degli altri, ma si va molto veloce, l’ordine sintattico del francese è fondamentalmente inverso rispetto a quello del giapponese, ed i miei compagni, che non hanno una versione completa preparata in precedenza e traducono sul momento, offrono una traduzione che segue spesso un ordine assai diverso da quello della mia versione preparata a tavolino. Pertanto, se cerco di annotare correzioni o modifiche sui miei fogli non riesco a fare a meno di perdere qualche pezzo. È un po’ scoraggiante notare che molte delle volte in cui ho dovuto scegliere tra due o più termini chiave, la scelta lessicale non si è rivelata azzeccata: ad esempio «fondamentale» non è kiso ma konpon, «distinction nette» non è meikaku ma meiryôna kubetsu, «servire a» non è kanau ma hôshi suru, «culto» non è shinkô ma saishi, ed infine, «intuitivo» non è chokkan con il kanji «kan» di kanjiru ma con quello di una forma particolare di vedere. Perché ne azzecco una su cinque? Che sia il mio dizionario, che non è all’altezza? Non sono in grado di giudicare, e in ogni caso non posso certo fare a meno dell’unico dizionario che c’è.

Si va avanti, si traduce e si discute, e si divaga anche un po’. Tocchiamo diversi argomenti: il culto dei morti, l’editto di Saint-Cloud, alberi piantati da antenati e che ora bisogna tagliare, e chi sia il proprietario delle chiese. Quattro paia di occhi si puntano su di me. Spiego con qualche incertezza quello che non ricordo di aver studiato, cioè che in Italia sono le diocesi ad essere proprietarie degli edifici di culto, ma procedo molto cauto. Sarà così dappertutto? È sempre stato così? Non è la prima volta e ahimè non sarà l’ultima, in cui di fronte alle curiosità giapponesi mi rendo conto di quante cose del mio sistema io trascuri o abbia dato per scontate.

Sono le 12:11, la lezione è finita. Abbiamo fatto poco più di una paginetta.

(puntata precedente)                                                                                                    (continua)

3 pensieri riguardo “Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (III)

  1. Eh, lo Shogakukan fa abbastanza schifìo. Io uso quello inglese di solito, anche se spesso devo fare lavoro doppio: italiano – inglese – giapponese.

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