15 dicembre 2009
Oggi si inizia da me. I primi problemi sono i più semplici: civilizzazione urbana, cioè un nome astratto indicante un processo accompagnato da un aggettivo. Di fronte a me vi sono numerose possibilità di traduzione: posso semplificare, esplicare, ricombinare il sintagma. Il professore sancisce che la traduzione è toshi bunmei.
Riguardo alla «corte» che il maschio fa alla femmina, è vero che in italiano «corteggiamento» si può riferire sia a comportamenti tra umani che tra stambecchi – sia chiaro: come per il soprabito di cui sopra, non vi è nessun significato nascosto – ma ho la sensazione che il giapponese distingua. Talvolta questi presentimenti si rivelano errati, ma mi sono reso conto che negli ultimi tempi, più e più volte si rivelano fondati. In questo caso tuttavia i miei strumenti mi restituiscono solamente termini che mi paiono riferirsi al genere umano, e i miei presentimenti mi servono solo a far sì che, prima di leggere «kudoku» mi senta in dovere di fare una premessa ai colleghi. Dico: «forse non è la parola giusta parlando di animali, ad ogni modo, “kudoku”». Infatti il termine giusto è un altro.
Di «consacrare» fornisco una traduzione, hônôshiki, che lascia il professore un po’ interdetto. Sfoglia il Petit Robert, si consulta con i colleghi e statuisce: sì, va bene. Non va bene invece la traduzione che ho fornito di «rappeler», che non è un semplice ricordare (oboeru) ma un re+appeler, cioè sôki suru, o, letto «à la japonaise», omoiokosu. Nasce anche una piccola discussione intorno al «superiore» di paleolitico: io ho tradotto kôki, cioè «seconda parte», «quello che viene dopo», mentre ci si chiede se «superieur» non voglia dire «più risalente», «quello prima», e perciò «zenki». La querelle non ha nessun collegamento con il termine «saki», ma il Petit Robert non è di aiuto e la domanda rimane come compito per la prossima volta. Finisce il mio turno.
Legge la mia vicina Hashimoto. Puntualizzazioni lessicali: «solennità» è yôshiki, a sua volta diverso da «cerimonia», gishiki. Nakajima chiede la differenza tra tradurre «collettivo» con shûdan o con shûgô. Domanda molto insidiosa, anche per il professore:
– Cosa significa shûgô? Proviamo a fare degli esempi… mi viene in mente solo l’espressione delle scienze sociali, «rappresentazione collettiva», che si traduce shûgô hyôshô, anche se ha delle basi shûdanteki… C’è altro? Ah sì, questo «politique». Come al solito seijiteki non è che vada così bene. Certo, non è che si siano tanti altri modi di dirlo, in effetti è seiji, ma qui si vuole indicare qualcosa che riguarda la comunità, le decisioni della polis, che riguardano tutti, mentre seiji ha sfumature moderne: «la politica», «le scienze politiche», che sì, d’accordo, anche queste riguardano tutti… ma in sostanza, state attenti quando traducete «politique».
Note curiose: quando si parla di culto degli antenati Hashimoto accenna alla festa di Obon, e io tra me e me penso a quali siano al giorno d’oggi le corvées del giapponese medio intorno al 15 agosto: le code chilometriche sulle autostrade, il superaffollamento degli shinkansen o i prezzi folli dei biglietti aerei.
Nakajima legge e traduce il passo in cui si parla di produzione e godimento collettivi, secondo diversi modelli. Il lavoro collettivo per poi dividersi i frutti è un modello di cui vi sono numerosi esempi, ma il fatto che si parli anche di prodotti fatti da tutti e di cui un solo soggetto ne gode, a turno, mette i miei colleghi un po’ in crisi. A cosa si sta riferendo in concreto Sacco? Ci fermiamo per capire quali possano essere questi prodotti. Dopo qualche tentativo – il lavoro nei campi, la costruzione di una casa, di condotti per l’acqua non valgono come risposta: sono opere e non prodotti – abbozziamo: i regali fatti dalla comunità ai novelli sposi, ed il mochi.
La lezione prosegue e, parlando di fonte dell’obbligazione da ritrovarsi nello status della persona all’interno della comunità, Kawada accenna per la prima volta in questo seminario ad un termine che suscita curiosità in Occidente: giri.
Intanto è finito il giro e tocca di nuovo a me. Qualche intoppo terminologico, un chi’i che andava tradotto mibun – in seguito Hashimoto tradurrà mibun quello che invece corrisponde a chi’i – finché si arriva al passo in cui si torna a parlare di schiavi. La domanda me l’ero tenuta in canna. È ora di spararla, naturalmente secondo l’etichetta giapponese:
– Ma… in Giappone, cioè… c’erano gli schiavi?
La domanda prende in contropiede un po’ tutti. Si discute, a nessuno risulta un sistema di regole sulla proprietà, sui frutti del lavoro, sui figli degli schiavi, come quello del diritto romano. Si cerca di ricordare qualche dato sull’epoca dell’imperatrice Himiko. C’erano naturalmente situazioni di fatto in cui alcuni soggetti potevano considerarsi schiavi: si vendevano le persone, e nei rapporti feudali vi era una soggezione totale, ma non vi erano un sistema giuridico formalizzato e giuristi come a Roma.
Capisco, ed era più o meno la risposta che mi aspettavo, per cui la controdomanda è d’obbligo:
– E invece la parola dorei, che origine ha?
Kawada:
– Mah, ora sentendo dorei vengono in mente gli schiavi neri, le navi che li portavano dall’Africa in America. Uhmmm… [consulta il dizionario elettronico] …il dizionario dice che la parola dorei viene dal cinese.
Il professore:
– C’è anche il termine yakko che probabilmente condivide alcune sfumature di dorei, ma sì, dunque dorei è una parola della traduzione. Beh, sono arrivate le 12, per oggi ci fermiamo qui.
(puntata precedente) (continua)