Andrea Ortolani

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Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (XII)

19 gennaio 2010

Penultimo capoverso di pag. 228, da «À vrai dire». Oggi si inizia da me. Leggo 4 righe, fino a «donataire». Ancora qualche imprecisione: «bien patrimonial» è, nonostante il bisticcio, zai- san na zai, benevolo è mushô. Il prefisso «extra-» invece l’ho centrato, in questo caso è hi-.

La parola passa a Hashimoto per la seconda parte del capoverso, in cui si parla di venalità misinterpretata. Il professore:
– Riguardo a ciò, mi viene in mente una cosa. Quando vado in Francia, porto spesso un regalino ai colleghi, un omiyage, lo facciamo sempre qui in Giappone. C’è uno switch immediato: subito il registro cambia: ecco qui c’è la biblioteca, se vuole può usare questo, le interessa venire a tenere una lezione qua, e così via. È interessante.
– Però in Giappone portare un regalino da un viaggio è una cosa ormai così comune che non ha più tutto questo valore… puntualizza Kawada.
– Sì, – risponde il professore – però c’è il giri.

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Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (XI)

12 gennaio 2010

Causa pausa natalizia e rientro in Italia ho perso la lezione del 22 dicembre.

Il 12 gennaio siamo di nuovo in 3, perché Nakajima ha preso il «kaze».

Una breve parentesi per chi si dovesse ammalare in Giappone: ai corsi di lingua giapponese mi è stato insegnato, o almeno io ho appreso che kaze significa «raffreddore». Il dizionario riporta come significato «raffreddore», e, se usato nell’accezione di infuruenza, «influenza». Nell’Arcipelago, ho sentito usare kaze in presenza di sintomi di raffreddore, mal di gola, tosse, febbre, mal di pancia più o meno grave, nausea, mal di te- sta, insomma tra tutti i malanni meno gravi, tutto quello che non è influenza o allergia ai pollini. La terminologia del giapponese giuridico probabilmente non presenta di questi problemi, ma il discorso giuridico non è composto al 100% da termini giuridici, ed ogni volta che questa cosa sul kaze mi torna in mente, un po’ mi preoccupo.

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Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (X)

15 dicembre 2009

Oggi si inizia da me. I primi problemi sono i più semplici: civilizzazione urbana, cioè un nome astratto indicante un processo accompagnato da un aggettivo. Di fronte a me vi sono numerose possibilità di traduzione: posso semplificare, esplicare, ricombinare il sintagma. Il professore sancisce che la traduzione è toshi bunmei.

Riguardo alla «corte» che il maschio fa alla femmina, è vero che in italiano «corteggiamento» si può riferire sia a comportamenti tra umani che tra stambecchi – sia chiaro: come per il soprabito di cui sopra, non vi è nessun significato nascosto – ma ho la sensazione che il giapponese distingua. Talvolta questi presentimenti si rivelano errati, ma mi sono reso conto che negli ultimi tempi, più e più volte si rivelano fondati. In questo caso tuttavia i miei strumenti mi restituiscono solamente termini che mi paiono riferirsi al genere umano, e i miei presentimenti mi servono solo a far sì che, prima di leggere «kudoku» mi senta in dovere di fare una premessa ai colleghi. Dico: «forse non è la parola giusta parlando di animali, ad ogni modo, “kudoku”». Infatti il termine giusto è un altro.

Di «consacrare» fornisco una traduzione, hônôshiki, che lascia il professore un po’ interdetto. Sfoglia il Petit Robert, si consulta con i colleghi e statuisce: sì, va bene. Non va bene invece la traduzione che ho fornito di «rappeler», che non è un semplice ricordare (oboeru) ma un re+appeler, cioè sôki suru, o, letto «à la japonaise», omoiokosu. Nasce anche una piccola discussione intorno al «superiore» di paleolitico: io ho tradotto kôki, cioè «seconda parte», «quello che viene dopo», mentre ci si chiede se «superieur» non voglia dire «più risalente», «quello prima», e perciò «zenki». La querelle non ha nessun collegamento con il termine «saki», ma il Petit Robert non è di aiuto e la domanda rimane come compito per la prossima volta. Finisce il mio turno.

Legge la mia vicina Hashimoto. Puntualizzazioni lessicali: «solennità» è yôshiki, a sua volta diverso da «cerimonia», gishiki. Nakajima chiede la differenza tra tradurre «collettivo» con shûdan o con shûgô. Domanda molto insidiosa, anche per il professore:

– Cosa significa shûgô? Proviamo a fare degli esempi… mi viene in mente solo l’espressione delle scienze sociali, «rappresentazione collettiva», che si traduce shûgô hyôshô, anche se ha delle basi shûdanteki… C’è altro? Ah sì, questo «politique». Come al solito seijiteki non è che vada così bene. Certo, non è che si siano tanti altri modi di dirlo, in effetti è seiji, ma qui si vuole indicare qualcosa che riguarda la comunità, le decisioni della polis, che riguardano tutti, mentre seiji ha sfumature moderne: «la politica», «le scienze politiche», che sì, d’accordo, anche queste riguardano tutti… ma in sostanza, state attenti quando traducete «politique».

Note curiose: quando si parla di culto degli antenati Hashimoto accenna alla festa di Obon, e io tra me e me penso a quali siano al giorno d’oggi le corvées del giapponese medio intorno al 15 agosto: le code chilometriche sulle autostrade, il superaffollamento degli shinkansen o i prezzi folli dei biglietti aerei.

Nakajima legge e traduce il passo in cui si parla di produzione e godimento collettivi, secondo diversi modelli. Il lavoro collettivo per poi dividersi i frutti è un modello di cui vi sono numerosi esempi, ma il fatto che si parli anche di prodotti fatti da tutti e di cui un solo soggetto ne gode, a turno, mette i miei colleghi un po’ in crisi. A cosa si sta riferendo in concreto Sacco? Ci fermiamo per capire quali possano essere questi prodotti. Dopo qualche tentativo – il lavoro nei campi, la costruzione di una casa, di condotti per l’acqua non valgono come risposta: sono opere e non prodotti – abbozziamo: i regali fatti dalla comunità ai novelli sposi, ed il mochi.

La lezione prosegue e, parlando di fonte dell’obbligazione da ritrovarsi nello status della persona all’interno della comunità, Kawada accenna per la prima volta in questo seminario ad un termine che suscita curiosità in Occidente: giri.

Intanto è finito il giro e tocca di nuovo a me. Qualche intoppo terminologico, un chi’i che andava tradotto mibun – in seguito Hashimoto tradurrà mibun quello che invece corrisponde a chi’i – finché si arriva al passo in cui si torna a parlare di schiavi. La domanda me l’ero tenuta in canna. È ora di spararla, naturalmente secondo l’etichetta giapponese:

– Ma… in Giappone, cioè… c’erano gli schiavi?

La domanda prende in contropiede un po’ tutti. Si discute, a nessuno risulta un sistema di regole sulla proprietà, sui frutti del lavoro, sui figli degli schiavi, come quello del diritto romano. Si cerca di ricordare qualche dato sull’epoca dell’imperatrice Himiko. C’erano naturalmente situazioni di fatto in cui alcuni soggetti potevano considerarsi schiavi: si vendevano le persone, e nei rapporti feudali vi era una soggezione totale, ma non vi erano un sistema giuridico formalizzato e giuristi come a Roma.

Capisco, ed era più o meno la risposta che mi aspettavo, per cui la controdomanda è d’obbligo:

– E invece la parola dorei, che origine ha?

Kawada:

– Mah, ora sentendo dorei vengono in mente gli schiavi neri, le navi che li portavano dall’Africa in America. Uhmmm… [consulta il dizionario elettronico] …il dizionario dice che la parola dorei viene dal cinese.

Il professore:

– C’è anche il termine yakko che probabilmente condivide alcune sfumature di dorei, ma sì, dunque dorei è una parola della traduzione. Beh, sono arrivate le 12, per oggi ci fermiamo qui.

(puntata precedente)                                                                                                      (continua)

Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (IX)

8 dicembre 2009

Inizia, come al solito, Kawada. Legge il testo e presenta la sua versione. Per quanto mi riguarda, ci sono le solite delusioni terminologiche, che accetto ormai con serenità. E non potrei fare altrimenti: con chi prendersela, con la lingua giapponese? Con tutte le persone dalle quali ho appreso a parlarla? Con tutti i giapponesi passati e presenti? Con me stesso? Con gli unici dizionari che ho a disposizione? O forse il problema è proprio dentro a quell’aula? In ogni caso, non se ne esce.

Come sempre, l’attenzione terminologica è estrema e assoluta: per spiegare «époque desormais révolue» si accenna all’etimologia latina revolvere, a revolution, e il professore suggerisce una traduzione che, a patto di averla sentita e trascritta corret- tamente, non trovo sul mio dizionario giapponese-italiano.

Andiamo avanti. Il passo che parla di obligation delictuelle viene inquadrato senza tentennamenti nell’area del diritto civile, e delictuelle diventa così «fuhô kôi», cioè, ritraducendo in italiano, fatto illecito. Curiosamente, o forse no, non si trova un corrispondente giapponese con sfumature esclusivamente civilistiche del termine sanzione. Assisto per qualche decina di secondi al consulto tra i madrelingua, che snocciolano diversi termini, sui quali però non vedo formarsi un accordo.
Il professore scuote la testa per via delle sfumature lato sensu penalistiche che tutti i termini presi in considerazione presentano. Che sia un retaggio, crittotipico, del carattere del diritto giapponese tradizionale? Alla fine il problema è risolto con il solito katakana: sa-n-ku-sho-n, ovvero «sanction», che è la traduzione ormai radicata nelle scienze sociali, tra cui la sociologia del diritto.

Sarà perché il discorso non verte più su animali o soprabiti, sarà che abbiamo imparato a conoscere lo stile di Sacco, sarà che alcuni problemi sono stati già sviscerati in precedenza, ad ogni modo stiamo procedendo velocemente. Se nelle prime lezioni si riusciva a malapena a fare una pagina per volta, ora abbiamo superato la pagina quando è da poco trascorsa metà lezione.

Oggi ciascuno di noi riuscirà a prendere la parola ben 3 volte. Questo non vuol dire che non vi sia attenzione alle scelte traduttive, anzi, su alcune parole si continua a spezzare il capello in due, trovando non solo la traduzione standard ma anche la versione non più in uso, ad abundantiam: «cooperazione» può essere «kyôryoku», ma anche «kyôdô kôi», «atti comuni»; l’espressione «è tutto» che chiude il discorso non è solo «ijô dearu», ma un più preciso «soredake da». Passiamo alla composizione tra le parti e il termine scelto dal professore è saitei; non ho ragione di dubitare che essa sia la scelta migliore, ma proprio per questo motivo la fiducia nel mio dizionario giapponese-italiano, che per questo termine propone suggerimenti di traduzione un po’ lontani, come «decisione; decisione arbitrale, sentenza; arbitraggio», subisce l’ennesimo colpo.

Oggi tuttavia le questioni che ci impegnano di più sono legate alla grammatica francese.

Se ne va così anche la seconda metà della lezione. Abbiamo sforato di una decina di minuti ma il professore ci teneva a concludere quella che considera l’introduzione.
Dalla prossima lezione, che sarà una delle ultime, inizieremo ad affrontare la parte principale del discorso.

(puntata precedente)                                                                                                      (continua)

Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (VIII)

1 dicembre 2009

Siamo tornati ad essere in 5. Inizia a tradurre Kawada, che, essendo stato l’ultimo a parlare la volta scorsa, viene preso in contropiede, e lo sentiamo un po’ titubante. Termina la sua versione ed il professore lo riprende sulle particelle:

– Non è «wa», ma «ga».

Mi consola constatare che anche i nativi commettono errori quando viene in questione uno dei segreti meglio custoditi della lingua giapponese, cioè i casi in cui debba essere usato «wa» – che tanto per semplificare le cose si scrive «ha» – e i casi in cui invece occorre usare la particella «ga». Naturalmente, ad una nota positiva non può che accompagnarsene una negativa: parlando di marcatura del territorio mi ero ingegnato a trovare un termine giapponese, arrivando ad un goffo shirushi tsukeru, ma la traduzione corretta è il prestito, dall’inglese «marking», «maakingu», scritto ovviamente in katakana.

Arriviamo a «Le specificità del diritto si fanno sentire più acute…» e sento tradurre «kenri», cioè diritto soggettivo e non «», cioè diritto in senso oggettivo, diritto come corpo di regole, che mi sembra l’accezione usata in questo passo. Il confronto della versione francese e italiana non fornisce elementi che aiutino l’interpretazione, occorrerebbe chiedere all’Autore, ma provo a sollevare una domanda, rimanendo sul vago come richiede l’etichetta giapponese:

– E riguardo a questo «droit»…?

Kawada risponde sul merito, spiegando non la scelta di traduzione ma riassumendo il contenuto del paragrafo. Non era questo che cercavo, ma non ci sono obiezioni all’uso reiterato di kenri anche durante questa breve discussione, quindi mi rassegno alla nuda verità, cioè che non sono lì per insegnare il giapponese ai giapponesi.

– Va bene, altre domande? …no? Dunque, proseguiamo… Nakajima-san.

Nakajima e poi Hashimoto leggono, traducono, discutiamo i problemi linguistici e i dubbi riguardo al contenuto. Si accenna all’etimologia di transumanza e a Montesquieu. Tocca a me e discutiamo la mia traduzione di «patto» tra l’Antenato e la Terra, che – naturalmente – non è jôyaku ma yakujô. Il professore, parlando dell’impossibilità di disporre del potere sacrale legato alla terra, dice che in un certo senso gli sovviene il Giappone premoderno ed il ruolo dei templi shintô, i jinja:

– Mah, forse è un po’ riduttivo, però si può tracciare un parallelo.

E ancora le reminiscenze del Giappone premoderno affiorano qualche riga più in basso, quando parlando di capi della terra e capi politici estratti da una comunità sopraggiunta (immigrata o conquistatrice) che non vogliono mettersi in rottura con la Terra e con le forze soprannaturali che si collegano con essa, Nakajima interviene con una domanda non proprio innocente:

– Come quando sono arrivati gli americani e hanno mantenuto il Tennô?

Un breve istante di sorrisi abbozzati, cinque paia di occhi sorpresi che si incrociano. Il professore:

– Mah… sì… diciamo così, hehehe.

Oggi andiamo avanti molto spediti. Pochi problemi di traduzione, poche divagazioni. La versione francese inoltre non contiene il capitolo di digressione sul diritto attuale, perciò siamo già alla ricerca della fonte dell’obbligazione.

L’ultima pausa riguarda iuris vinculum, per spiegare il quale il professore si alza, si gira verso la lavagna bianca, dice «Questo ricordatevelo» e scrive il famoso passaggio di Institutiones III, XIV, pr.: «Obligatio est juris vinculum quo necessitate adstringimur alicujus rei solvendae, secundum nostrae civitatis jura».

Arrivano le 12, la lezione finisce.

(puntata precedente)                                                                                                      (continua)

Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (VII)

24 novembre 2009

10:17, sono il primo a entrare, e l’aula, stranamente, è già aperta, nonostante non vi sia nessuno dentro.
Arrivano Hashimoto e Kawada, ed il professore. Ci comunica che Nakajima oggi è assente.

Oggi inizio io. La frase che mi tocca è, naturalmente, una frase che mi aveva dato non pochi grattacapi quando preparavo la mia versione: «La présence du communautaire à côté de l’individuel est particulièrement suggestive en Afrique». Il giapponese è una lingua piuttosto concreta, come poter rendere «il comunitario» e «l’individuale»? I dizionari non mi sono di aiuto. Mi trovo in una situazione in cui riconosco benissimo che nella mia traduzione c’è qualcosa che non va, ma comunque la giri, non riesco a mettere insieme qualcosa di cui poter essere più o meno soddisfatto. Leggo: «Kyôdôtai seishin to kojinshugi no kyôzon», ritraducendo letteralmente in italiano: «la coesistenza dello spirito di corpo collettivo e dell’individualismo». La versione corretta sarà «Kyôdotekina mono to kojintekina mono no genzen». Non ci sarei mai potuto arrivare, e non so se la consapevolezza di ciò debba suscitare in me disperazione o al contrario, una serena rassegnazione. In ogni caso, la lezione continua.

Il comunismo primitivo non è «genshi kyôsanshugi», ma «genshi kyôsansei» ed il professore ci ricorda che non sempre la desinenza «-ismo» va tradotta con «-shugi»: talvolta, come in questo caso, è più appropriato tradurre «-sei», talvolta «-ron». Inoltre, fa notare come la pronuncia in francese di «communisme» sia mutata per via dell’influenza dell’inglese sulle élites, da [kømynism] a [kømyənism]. Il mio orecchio poco allenato alla parlata di Parigi non mi permette di distinguere differenze.

Ma la parte per me più interessante della lezione di oggi è la seguente: parliamo di diritti individuali contornati e limitati dal rispetto del sacro e delle esigenze del gruppo, ed il professore riprende la parola:

– A me questo passo ricorda Kawashima, Takeyoshi… l’avete letto?

Da qui si apre una parentesi su Kawashima, sul suo percorso intellettuale e naturalmente sulla mentalità giuridica dei giapponesi. I giapponesi conoscono il concetto di diritto soggettivo? La risposta è sì, lo conoscevano, ma all’interno del gruppo, ed in ogni caso un diritto soggettivo poteva essere sanzionato solo dall’alto di un potere centrale o dal gruppo stesso. Il suggerimento di lettura è un volume dal titolo «Amae to hôshakaigaku» [«Amae e sociologia giuridica». Amae non si traduce]. Si parla anche dei «revisionisti», come il professore dell’Università di Tokyo Aoki Masao, che affermano che al contrario in Giappone vi era un’idea di diritto proprio come in Occidente. Tuttavia il professore non sembra molto convinto della presenza di questa «kenri ishiki». Accenna alla consuetudine e apre una parentesi nella parentesi, raccontando una vicenda personale di azione di regolamento di confini di una casa in campagna, dapprima paralizzata dal formalismo del testo normativo, delle procedure burocratiche e dalla rigidità dei funzionari pubblici, poi risolta attraverso aderenze e metodi informali che portarono ad un giusto e lieto finale.

Torniamo a Sacco, e chiudiamo questa parentesi con un commento sul passo che tratta di rivoluzionamenti e usurpazioni sistematiche dovute all’applicazione delle categorie europee ai rapporti proprietari tradizionali:

– Ecco esattamente quello che è successo nella restaurazione Meiji.

La lezione prosegue. Un piccolo incidente: con un certo imbarazzo, non ricordo la lettura di una parola, che pure avevo tradotto. Capita anche questo.
L’ultimo a tradurre è Kawada. Abbiamo iniziato il punto 3. La lezione di oggi è volata.

(puntata precedente)                                                                                                      (continua)

Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (VI)

17 novembre 2009

– Par ailleurs, la propriété – plus que tout autre droit – se compose de…

È Kawada che inizia oggi. Legge, o meglio presenta, la sua versione, ed il professore lo incalza a partire dalle prime parole:
– Par ailleurs? Non va bene tradurre sara ni, «ailleurs» si riferisce un altro luogo, indica un cambiamento di discorso.
Tahô?
– Esatto, tahô.

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Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (V)

10 novembre 2009

Il seminario riprende dopo la pausa dovuta al giorno della cultura, il 3 novembre.

Arrivo al mio posto e preparo i miei strumenti: estratti, testo italiano, stampe della mia versione, il piccolo dizionario elettronico che contiene in memoria 12 dizionari, dizionario giuridico francese-giapponese.

Iniziamo. Inizio io. Mi capita il paragrafo con la nota sulle 12 tavole. Avevo controllato la traduzione di «12 tavole», il frammento citato e la parte riguardante le messi, pensando di aver fatto tutto per bene. Mancava qualcosa: la pena per chi «fruges excantassit», che il professore afferma essere la pena capitale. Discutiamo inoltre di cosa si trattasse in pratica, parlo di magia, stregoneria, sortilegio, che in giapponese suona «mahô», Kawada mi risponde:

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Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (IV)

27 ottobre 2009

Ha diluviato quasi due giorni, stamattina il cielo splende e si sta proprio bene, fa più caldo per strada che all’interno degli edifici.

La lezione inizia in orario. Era rimasto in sospeso il discorso sulla proprietà delle chiese, per cui chiedo se può interessare e parlo brevemente del Concordato e del regime giuridico degli edifici adibiti a luogo di culto. Il professore prende appunti. Sullo slancio di questo discorso, Kawada chiede della concezione della separazione tra Stato e Chiesa in Italia, possibilmente comparando la situazione alla Francia. Dico che l’idea che ne ho è che in Francia sia una cosa presa più severamente, e accenno ad una cosa che so suscitare l’interesse dei giapponesi, cioè la questione del crocifisso nei luoghi pubblici.

Stiamo per riprendere da dove ci eravamo arrestati la volta precedente, ma faccio notare una lieve disparità tra il testo francese e quello italiano, che ha qualche riga in più, per cui leggo la traduzione che ho fatto della parte mancante. Vi è una frase relativa, che, per via della sintassi della lingua giapponese, è una delle cose più difficili e innaturali da tradurre, per cui so che la mia traduzione suona quantomeno strana, se non proprio af- fetta da errori piccoli o meno piccoli. Se qualcuno sa il giapponese, provi a tradurre fedelmente la frase che precede, e poi mi faccia sapere. Tornando al nostro seminario, l’italiano non lo sa nessuno, non posso essere controllato, per cui per ora la passo liscia.

Tocca alla mia vicina Hashimoto. Il professore puntualizza la differenza tra servo e schiavo, ed è un po’ perplesso sul fatto che la dogmatica giuridica occidentale veda in un certo soggetto umano un proprietario.

Finiamo il giro ed è di nuovo il mio turno. Io traduco abbastanza liberamente, e vengo giustamente ripreso su alcuni termini chiave: «innovativo» non è solamente «nuovo», «più fedele» non è «più preciso», e i frutti ricavati dagli atti di gestione non devono essere tradotti, in senso ampio, in modo da comprendere gli interessi, «rieki» ma proprio come le banane, le mele, le pere: «kajitsu». Che è anche la terminologia del Codice civile giapponese: «ten’nen kajitsu» e «hôtei kajitsu», «frutti naturali» e «frutti legali». E poi c’è la solita frase relativa, della quale sono invitato a spiegare la sintassi, il che non è cosa semplice per chi ne fa uso nella propria lingua senza pensarci molto su, ma dopo qualche sforzo e un paio di malintesi ce la facciamo.

Proseguiamo. È giusto e naturale che il mio interesse si rivolga, più che alla sintassi francese, alla terminologia giapponese, per cui quando posso alzo la mano per chiedere delucidazioni sulle scelte lessicali. Sento che Nakajima traduce «significativo» con «daiji», ma, conoscendo gli standard di precisione terminologica del seminario, questo «daiji» mi suona un po’ strano. Io ho tradotto come «imibukai». In effetti, terminata la traduzione, il professore ritorna su questo punto. Mi rincuora il fatto che qualche volta ne azzecco qualcuna anch’io, ma non faccio in tempo a pensarlo che mi tocca riprendere in mano la matita e aggiungere un appunto di fianco a imibukai: non avevo indovinato, il professore traduce «shisabukai».

Arriviamo ad un’altra parola chiave: capo. Naturalmente il termine scelto da Hashimoto, «shuchô», non è quello che avevo scelto io, «shuryô». Anzi, «shuchô» non compare nemmeno tra le voci del mio dizionario. Ma questo non deve stupire, e non mi stupisce già da tempo. Ad ogni modo, alzo la mano e chiedo spiegazioni sui due termini. Il professore mi dice che sì, «shuryô» non è sbagliato, vuol dire capo, anzi in origine era forse il termine più appropriato, ma oggi, in questo contesto non suona bene, perché si è via via colorato di connotazioni negative, ed è così che nell’aula risuona per la prima volta un prestito linguistico dall’italiano: «mafia».

La lezione si avvia verso la fine. Ancora qualche precisazione terminologica e qualche errore che potevo forse evitare. Ad esempio: vivendo in un ambiente in cui in tutti i posti in cui non è permesso l’ingresso alle persone non autorizzate vi è un cartello recante l’avviso che è vietato l’ingresso alle persone non autorizzate, con un po’ più di attenzione avrebbero dovuto venirmi in mente quei cartelli e avrei potuto tradurre ingresso non con il semplice verbo hairu ma con il più appropriato – ancorché più complesso – tachiiru.

Finiamo con qualche minuto di anticipo sulle 12:10. Scopro che, dopo quanto detto, non è comunque così facile per questi giovani giapponesi intendere il senso dei patti di protezione conclusi con la partecipazione di personaggi soprannaturali.

(puntata precedente)                                                                                                      (continua)

Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (III)

20 ottobre 2009

10:20, siamo tutti in classe. Il professore arriva puntualissimo. La volta scorsa non avevamo fatto l’immancabile giro di presentazioni, rimediamo brevemente adesso: Kawada (cognome) Takuya (nome), Nakajima … non riesco a sentire il nome: l’aula è grande, e i miei colleghi parlano pianissimo. In realtà non è un grosso problema: in Giappone, per le esigenze della vita di tutti giorni, i nomi propri possono essere tranquillamente ignorati. E comunque, anche conoscendo il suono di un nome non si può mai essere sicuri di come sia scritto. Vale anche il discorso contrario: vedendo solo i segni di un nome proprio, nessuno può essere sicuro di quale sia la pronuncia. Di fianco a me, Hashimoto. Io penso sia importante farsi almeno sentire, e parlo a voce alta; sarò per questo considerato arrogante?

In ogni caso, si inizia.
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