Di un manifesto, del diritto d’autore e dell’ordine sociale giapponese (II)

Di un manifesto, del diritto d’autore e dell’ordine sociale giapponese (II)

Stavamo dunque parlando di un manifesto affisso all’Università, e di cosa ci dice riguardo all’atteggiamento giapponese nei confronti della proprietà intellettuale.
In questo post invece vedremo cosa ci rivela quel manifesto sull’ordine sociale giapponese.

Alcune analisi classiche spiegano l’ordine sociale del Giappone moderno come il risultato dell’influenza della morale confuciana, condivisa da tutta la popolazione, o del controllo esercitato direttamente dallo Stato attraverso l’amministrazione. In sostanza, un sistema monistico, con la norma etico-religiosa, o lo Stato, a capo di tutto, ed i soggetti direttamente sotto, unificati dall’osservanza a questa norma.

Sono sempre più convinto però che la spiegazione corretta sia però un’altra: l’ordine sociale giapponese non è il risultato ricercato più o meno consapevolmente da strutture “macro” come la morale o lo Stato, onnicomprensive e rivolte a tutti i consociati in condizione di parità.
Al contrario, esso è il prodotto della somma di tanti piccoli ordini locali, mantenuti dalle strutture sociali intermedie di cui praticamente tutti i giapponesi prima o poi, a seconda della fascia di età in cui si trovano, fanno parte: la scuola, l’università, l’ufficio e/o l’azienda, le varie associazioni di quartiere.
Che non sono poi altro che versioni moderne dei villaggi e delle associazioni professionali/locali dell’epoca Tokugawa.

In Giappone è al controllo sociale di queste strutture che va ascritto gran parte dell’ordine sociale complessivo. È ciascuno di questi gruppi che, esercitando il controllo al suo interno, e irrogando se necessario sanzioni, contribuisce indirettamente all’ordine sociale su larga scala.
Ed in effetti salta subito all’occhio che in Giappone sono i datori di lavoro, le università o le scuole le prime strutture ad intervenire nei confronti del proprio membro che infrange l’ordine sociale. Le sanzioni arrivano rapidamente, e sono molto efficaci.
Guida in stato di ebbrezza, assunto droghe? Licenziato, espulso dall’università. Di fatto, ostracizzato.
Più si è in vista, più le sanzioni diventano esemplari: per i personaggi dello spettacolo, le sanzioni ovvie sono la risoluzione di tutti i contratti, sponsorizzazioni, etc… da parte delle società che gestiscono artisti, “tarento” e simili. Si arriva a ritirare dal commercio tutti i dischi, video etc… del soggetto interessato, anche quelli di decenni prima del misfatto. Produttori e manager coinvolti si sentono in dovere di presentare scuse pubbliche. Caso emblematico è quello di Noriko Sakai. A Tsuyoshi Kusanagi degli SMAP è andata meglio, ma d’altronde per lui si trattava solo di un episodio -spassoso- di ubriachezza molesta.

Tutto ciò senza aspettare non dico la fine, ma spesso nemmeno l’inizio del processo. Con tanti saluti alla presunzione d’innocenza.
Ma d’altronde, in un sistema dove a fronte delle 64.540 sentenze di colpevolezza pronunciate nel 2009 in tutti Tribunali distrettuali dell’Arcipelago, le sentenze di non colpevolezza sono state 68, questo 0,1% può essere considerato un margine di errore accettabile.

Il manifesto di cui sopra è proprio un esempio di questa inclinazione verso il controllo e testimonia il ruolo proattivo delle strutture intermedie nel mantenimento dell’ordine sociale giapponese.
Non si tratta di una campagna lanciata o promossa dallo Stato, appoggiandosi eventualmente alle istituzioni locali. È proprio un’istituzione intermedia, in questo caso un’università semi-pubblica, a farsi promotrice dell’osservanza della norma e a lanciare la campagna.
Di conseguenza, è proprio l’università a “metterci la faccia” firmando il messaggio. Non ci sono riferimenti alla legge sul diritto d’autore. Semplicemente si dice che non è etico, non va fatto, e che altrimenti si sarà “scoperti”, e naturalmente sanzionati.
Questo anche se la ragion d’essere di un’università non è la difesa del diritto d’autore, né più generalmente, la vigilanza sui suoi membri affinché non siano violate le leggi dello Stato.

Qualcuno potrebbe dire che il diritto d’autore sia materia idealmente collegata alla diffusione del sapere che pertanto una struttura di istruzione possa sentirsi chiamata a esprimere la sua posizione in merito.
L’obiezione però non regge per due motivi: il diritto d’autore e tutta la disciplina della proprietà intellettuale ha l’obiettivo non di diffondere, ma di limitare la circolazione del sapere. Un’università fedele al suo ruolo dovrebbe quindi non dico suggerirne la violazione, ma quantomeno diffonderne una conoscenza critica ed equilibrata, e non fare terrorismo come quello che traspare dal manifesto.
Il secondo motivo è questo: anche ammettendo che l’università si senta in dovere di dire la sua in materia di proprietà intellettuale, come si spiegano gli altri poster nelle bacheche della segreteria?
Finora ne ho visti sulla guida alcoolica, sulle regole da seguire alla guida della bicicletta, o ancora avvisi che ricordano che l’uso di cannabis o stimolanti sintetici è reato -comparsi dopo che un incauto studente si era spedito dall’estero al suo indirizzo giapponese qualche grammo di hashish.

Questo fu un piccolo caso, l’incauto studente non era giapponese e fu subito additato come esempio negativo dall’Università, che scrisse a tutti gli studenti ricordando che la droga fa male all’individuo e alla società.
Un brillante collega europeo scrisse una risposta dicendo che il ragazzo aveva sbagliato ma che andava aiutato, non poteva essere abbandonato a se stesso. La cosa prevedibilmente non ebbe seguito.
Il collega dopo qualche mese è tornato in Europa secondo i suoi piani.
Non so nulla dell’incauto studente.

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