Andrea Ortolani

Tag: confessioni

Giudici popolari vs. giudici togati II

Tra i motivi dell’introduzione della giuria mista in campo penale (il saiban’in seido) vi era la volontà di giungere a decisioni più aderenti allo spirito e al comune sentire del popolo giapponese.
Alcune voci critiche del sistema evidenziavano il rischio che, con l’introduzione dei giudici popolari avremmo assistito ad una più spiccata disparità tra pene comminate a soggetti condannati per casi analoghi (uno dei punti di forza del sistema penale giapponese è l’accuratezza nella quantificazione della pena, almeno per quanto riguarda i crimini violenti), o più in generale il rischio che i giudici popolari fossero più mossi dall’emozione e adottassero una tendenza a comminare pene più severe. Avevamo già scritto più di due anni fa su alcuni casi in cui questi problemi si erano presentati.
Secondo uno studio della Corte Suprema i giudici popolari hanno la tendenza a comminare pene più severe rispetto ai giudici togati.

Il problema si è puntualmente presentato ed ha risalito tutta la gerarchia del sistema giudiziario fino ad approdare alla Corte Suprema.
La quale ha ristabilito l’ordine e modellato la pena secondo gli standard usati dai giudici togati prima dell’introduzione della giuria mista. Annullando così le condanne a morte (o meglio: confermando le sentenze delle Alte Corti (collegi composti di soli giudici togati) che in precedenza avevano già annullato le condanne a morte decise dai collegi partecipati dai giudici popolari.

Da una parte, è naturale essere contenti per il risultato pratico: meno condanne a morte è in ogni caso una cosa positiva.
Dall’altra tuttavia non si può non riconoscere che la riforma delle sentenze da parte dei giudici togati va contro lo spirito della legge sulla giuria mista, svuotando l’istituto di uno dei principali motivi per cui era stato introdotto… o almeno, per cui si diceva essere stato introdotto, cioè l’introduzione del senso comune popolare nella giustizia penale.
Forse l’obiettivo era un altro: tentare di arginare il fenomeno delle confessioni estorte con varie tecniche, e porre un filtro al collegamento, secondo alcuni troppo stretto, tra PM e giudici.

Confessioni fasulle: in Giappone e altrove

La BBC si chiede perché in Giappone gli imputati innocenti confessino.
Su questo argomento, il titolare è stato intervistato da Giulia Pompili per il Giornale. Il fenomeno non è esclusivamente giapponese. Sono ormai numerosi gli studi che affrontano il problema.
Un sito che raccoglie ricerche e studi di casi sul problema  è questo: falseconfessions.org . In particolare, in questa pagina si presentano i meccanismi che possono portare un indagato ad ammettere cose che non corrispondono alla realtà, a lui sfavorevoli. Questi meccanismi psicologici valgono in USA come in Giappone.
Altre risorse sul tema qui, o qui più in generale sugli errori giudiziari.

Collegato al problema delle false confessioni vi è quello dell’attendibilità delle testimonianze. Recenti studi di psicologia/criminologia dimostrano che molto più spesso di quanto si creda testimoni oculari alterano le loro memorie, e sono convinti in perfetta buona fede, di aver visto cose difformi dalla realtà.

L’esperimento classico è questo, provate a farlo anche voi:

[youtube=http://youtu.be/IGQmdoK_ZfY]

In galera per una rivista + CD

Apprendo dal mio amico Francesco Fondi, autore dell’ottimo blog Otaku News ospitato da Wired Italia, che la polizia giapponese ha arrestato il presidente e 3 redattori della casa editrice Sansai Books.
Reato contestato: quello di aver venduto una rivista con CD in omaggio in cui si spiegava come aggirare le protezioni anticopia, o DRM. L’atto è previsto come reato dalla Legge sulla prevenzione della concorrenza sleale ( 不正競争防止法 ), come sostiene anche lo Yomiuri Shinbun. Mi pare che l’articolo in questione sia l’art. 2, ove si definisce cosa costituisca concorrenza sleale, comma 10 e comma 11.

Sansai Books aveva stampato 18.500 copie del libro e ne aveva vendute circa 4.000 al prezzo di 1050 yen. Il 28 settembre dell’anno scorso l’Associazione giapponese video e software (JVA) aveva mandato una testa di cavallo una lettera di avvertimento a 23 editori, ricordando loro che la pubblicazione di materiale per la decodifica (ripping) del software o dei video è reato, e chiedendo di impegnarsi solennemente a non pubblicare più tali software. Evidentemente Sansai non aveva seguito il suggerimento.
La comunicazione della JVA del 7 luglio 2012, che ripercorre brevemente la storia e commenta gli arresti si può trovare qui (ht: link su TechinAsia).
È questa la prima volta che un editore e dei giornalisti sono oggetto di misure penali per questioni di diritto d’autore, violazione di copyright e DRM.

Come giustamente rileva Francesco, non si capisce perché la polizia abbia arrestato solo persone collegate all’editore e non abbia risalito la corrente fino ad Amazon Japan, che aveva il libro in listino fino a pochi giorni fa -ma che ora l’ha tolto.
In effetti anche Amazon ha contribuito a diffondere il libro.

Mi piacerebbe molto vedere il caso arrivare fino alla Corte Suprema e vedere se la legge riuscirebbe a reggere gli attacchi di costituzionalità che si possono facilmente immaginare. I due più evidenti sono quelli alla libertà di parola e al diritto di proprietà.
È indispensabile in questo caso che gli imputati siano molto motivati, che abbiano un buon collegio difensivo e una certa propensione al rischio.
Come spesso capita in Giappone infatti, molto probabilmente la migliore strategia difensiva, per il singolo, è quella di confessare, dimostrare pentimento, e promettere che non si ricadrà nel reato. Se si tratta della prima infrazione, in caso di reati minori e non violenti spesso l’imputato se la cava con una condanna sospesa. Il problema di questo approccio, o il punto forte se lo si vede dagli occhi dell’accusa, è che la legittimità della legge non può essere messa in discussione.
Se si decide di adottare una strategia aggressiva e dare battaglia colpo su colpo in tribunale senza riconoscere le accuse, in caso di condanna, cioè nel 99% dei casi, sarà molto più difficile vedersi concessa la sospensione condizionale della pena.
Un rischio non da poco per l’imputato.

Aggiornamenti flash

  1. Il Tribunale di Tokyo ha dichiarato incostituzionale il rifiuto da parte di un’università statale di ammettere al Dipartimento di ingegneria nucleare uno studente iraniano, rifugiato politico in Giappone. La corte ha stabilito che il rifiuto è in violazione dell’art. 14 della Costituzione, che assicura l’uguaglianza delle persone di fronte alla legge e proibisce discriminazioni.
    La decisione tuttavia non ha imposto all’Università di ammettere lo studente -ha solo suggerito di rivedere la procedura- né ha concesso il risarcimento del danno richiesto dallo studente.
  2. Talvolta ti arrestano per un nonnulla. Altre volte non ti arrestano nemmeno se sei tra i maggiori ricercati del Giappone e ti presenti spontaneamente.
    È successo che il 31 dicembre alle 23:35 circa, Makoto Hirata, membro del gruppo religioso Aum Shinrikyo (quello degli attacchi al gas sarin alla metropolitana di Tokyo) e ritenuto coinvolto negli attacchi al sarin alla metropolitana di Tokyo del 1995 nella vicenda di rapimento-omicidio di Kiyoshi Kariya (grazie Erica per la precisazione nei commenti!), si va a consegnare presso gli uffici centrali della polizia di Tokyo. Pare abbia detto:
    – Buonasera, sono Hirata Makoto, mi voglio consegnare alla polizia.
    Il personale forse era troppo impegnato a guardare Kohaku Uta Gassen, ha creduto che si trattasse di uno scherzo e l’ha mandato ad un altra stazione. Dove non è stato nemmeno preso in considerazione, ed è stato nuovamente “rimbalzato” alla stazione di polizia di Marunouchi.
    Dove, al terzo tentativo, dopo 16 anni di latitanza, Hirata è finalmente riuscito a farsi arrestare.
    Conseguenze dell’arresto: poiché le condanne a morte non possono essere eseguite finché vi siano processi in corso nei confronti dei complici dello stesso reato, il rinvio a giudizio di Hirata potrebbe mettere in pausa per qualche anno le esecuzioni degli altri membri del culto Aum, le cui condanne erano passate tutte in giudicato.
    Qui le foto segnaletiche di Hirata e di altri due ricercati in relazione agli attentati del 1995, presenti in tutte le stazioni ferroviarie, grandi edifici pubblici, etc… La taglia è di 5 milioni di yen. Hirata è (era) quello in mezzo. La sua foto è ora coperta da un adesivo che recita “Sentiti ringraziamenti per la collaborazione”.
    Ma si figuri.

Diritto, legge e giustizia al cinema

Settimane fa alcuni giornali hanno riportato che, come conseguenza dei regolamenti contro la yakuza di cui abbiamo parlato un paio di volte, la società di produzione Toei ha dichiarato che non si servirà più di membri della yakuza per i film sulla yakuza.

“I film e la realtà sono due cose diverse”

In realtà, tale affermazione non è del tutto convincente.
Innanzitutto, il fatto che oggi si dichiari che i membri della yakuza non saranno più scritturati, equivale a dire che fino a ieri gli yakuza comparivano nei film.
Inoltre, come sostiene Diego Gambetta nel suo ultimo, interessantissimo, libro Codes of the Underworld – How Criminals Communicate, il rapporto tra arte e realtà della criminalità organizzata non è a senso unico, nel senso che solo l’arte cerchi di rappresentare il mondo della malavita. Il rapporto è a doppio senso: se da una parte è indubitabile che l’arte imita la realtà, d’altra parte sono gli stessi gangster che talvolta prendono spunto dalle opere che parlano di loro e del loro mondo per modellare i loro comportamenti e comunicare sia tra di loro, che con il resto della società.

In Giappone il filone di film sulla yakuza è stato fiorente, anche se ora è in declino. Questi film hanno sicuramente dei risvolti interessanti sotto il punto di vista del diritto e della sociologia giuridica, ma non è del filone classico dei film sulla yakuza che voglio parlare in questo post.
Il tema di oggi sono 3 film giapponesi in cui si vedono rappresentazioni del diritto e della giustizia sullo schermo.

1. Minbo no onna

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=ngSo1JfVy2w]

Il 22 maggio 1992, sei giorni dopo l’uscita di questo film, il regista Juzo Itami fu accoltellato da 5 membri della yakuza. Sopravviverà, ed i suoi assalitori saranno condannati.
Il 20 dicembre 1997 Juzo Itami viene trovato morto, sfracellato al suolo ai piedi di un palazzo. Wikipedia contiene dettagli presi da Tokyo Vice di Jake Adelstein sulle ipotesi intorno alla sua morte, che rimane tuttora un episodio poco chiaro.

Minbo no onna è un film sulla yakuza, ma a differenza dei film del filone classico, in cui i gangster sono dipinti anche con i tratti propri degli eroi, nel quadro nostalgico di una società preindustriale dove i gangster incarnano i tratti e la moralità dei samurai, questa è una commedia e l’eroe è una donna. Una donna avvocato. Che, come si vede nel trailer, non ha paura dei gangster e usa l’astuzia e gli strumenti della legge per difendere sé ed il suoi clienti dalle piccole e meno piccole estorsioni di cui vivevano gli yakuza nei primi anni 1990.

I gangster al contrario sono rappresentati come delle macchiette ridicole e meschine, e sono messi a nudo i trucchi ed i meccanismi psicologici su cui fanno leva.
Il film è in sostanza un lungo appello alla cittadinanza a resistere, a non farsi intimidire, e a rivolgersi quando necessario alla legge.
Non stupisce che qualcuno non abbia gradito e abbia cercato vendetta.

2. Soredemo, boku ha yattenai

Il titolo significa: “E comunque, non sono stato io”.
Il sottotitolo recita: “Questo è il processo”.

La vicenda è ispirata a una storia vera, e narra del giovane di cui sopra che un giorno viene accusato da una liceale di molestie sessuali in una carrozza affollatissima della metropolitana ( 痴漢 chikan). Seguono arresto, custodia cautelare, interrogatori e tutte le fasi tipiche della giustizia giapponese, ivi compreso il tentativo degli inquirenti di estorcere la confessione.
Un film assai critico dell’amministrazione della giustizia in Giappone, che ha avuto un discreto successo di critica e pubblico.

3. Shoji to Takao

Di Shoji Sakurai e Takao Sugiyama avevamo parlato nel primo vero post di Il diritto c’è ma non si vede, e più recentemente qui.

Non sapevo che su di loro fosse stato girato un film. Il blog sul cinema giapponese Sonatine ne ha scritto una breve recensione:

Ventinove anni sono una vita. La società, le culture  e le persone cambiano e si evolvono in un lasso di tempo così lungo. Ebbene, privare una persona di questa ricchezza, di questa abbondanza, anche drammatica, di vita è un crimine imperdonabile. Succede che nel 1967 Sugiyama Takao e Sakurai Shōji siano arrestati e successivamente giudicati colpevoli di un furto e dell’assassinio di un uomo nella piccola città di Fukawa. Non esattamente due stinchi di santo… → continua sul blog Sonatine

Qui il sito ufficiale del film, e qui sotto il trailer:

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=heUtzp2gqH8]

Ho visto i primi due, quest’ultimo ancora mi manca, e anzi, grazie a Sonatine per il suggerimento.

La spontaneità delle dichiarazioni

Il 28 maggio, intorno alle 13:30, Hidemi Morimoto ( 森本秀美 ), 67 anni,  presidente dell’assemblea cittadina della città di Kawasaki, nella provincia di Fukuoka, è stato trovato moribondo in un’automobile, asfissiato dai fumi di un braciere a carbonella. Ricoverato ad un vicino ospedale, la sua morte è stata confermata un’ora dopo.

È stato un suicidio.

Morimoto era stato eletto al consiglio comunale nel mese di aprile, ma due suoi sostenitori erano stati arrestati il 25 maggio per la violazione della legge sulle elezioni.
Reato contestato: aver offerto una cena a una decina di persone durante la campagna elettorale.
Il medesimo giorno 25 maggio anche Morimoto era stato ascoltato dagli inquirenti, e le dichiarazioni “volontarie” erano proseguite anche il 26 ed il 27 per una decina di ore al giorno.
Il 28 maggio era in programma un altro turno di dichiarazioni, ma Morimoto non si presenterà.

Nel suo portabiglietti da visita è stato trovato questo messaggio:

“Verso le 7 di sera del 26 maggio, durante l’interrogatorio
hanno iniziato improvvisamente a essere violenti,
mi hanno aperto la bocca a forza, ho avuto veramente paura
È l’investigatore XY* della stazione di Tagawa”

*: il nome dell’investigatore non è stato divulgato ed è stato reso illeggibile nella foto del biglietto di Morimoto, qui sotto.


5月26日午後7時ぐらい
取調中 にとつぜん
私くしの口を上下に
ひきしゃくような暴力てきな
事になり本当にこわかった
XY 刑事です(田川所)

La famiglia sta valutando se presentare un’azione civile contro la stazione provinciale della polizia.
La polizia ha annunciato che condurrà un’indagine interna.

“Yakuza e stranieri non hanno diritti”

Tra le altre cose, è anche questo che gli anziani PM ( 検事 ) insegnavano ai cadetti al momento in cui questi iniziavano la loro carriera.

“Il PM dice quello che vuole, e poi fa firmare la confessione all’indagato”; “alla fin fine, gli stranieri non capiscono il giapponese. Perciò, in giapponese puoi insultarli come ti pare”; “una volta ho interrogato uno straniero agitandogli un punteruolo davanti agli occhi e insultandolo in giapponese. È così che li fai confessare”.
Non c’è solo la violenza o la minaccia, ma anche l’inganno per ottenere una firma sulla confessione: “Se l’indagato oppone resistenza, digli ‘Queste non sono le tue dichiarazioni, sono le mie’ e così lo fai firmare”.

Parole di Hiroshi Ichikawa (? 市川寛 , divertitevi anche un po’ voi coi nomi propri giapponesi), che ricorda come questo tipo di educazione giuridica fosse normale nel 1993, anno in cui entrò nel corpo degli inquirenti presso l’ufficio di Yokohama.

Ichikawa era uno tra i PM che portò avanti le indagini su presunti movimenti illeciti di denaro di una cooperativa di Saga nel 2001 ( 佐賀市農協背任事件 ). Il caso si concluse con un’assoluzione confermata in appello per il presidente della cooperativa, una condanna ad un anno e sei mesi, sospesa per 3 anni e non appellata per il direttore finanziario, ed un’assoluzione in appello, dopo la condanna a 8 mesi sospesa per 2 anni ricevuta in primo grado, per un altro dirigente della cooperativa.
Il risultato più importante delle indagini furono tuttavia le rivelazioni dei metodi poco ortodossi usati per ottenere la confessione dagli indagati.

Ichikawa nel 2005 ricevette un provvedimento di richiamo formale per la sua condotta durante le indagini del caso di Saga. Si dimise dall’ufficio del PM. Ora svolge la professione di avvocato.

La sua confessione (questa, non estorta), è stata fatta nel corso di un simposio tenuto all’Università Meiji il 23 maggio 2011. Informazioni a partire da qui

Dicesi enzai

Si legge enzai e si scrive così, 冤罪 , con il primo dei due kanji che non è nemmeno più inserito nella lista dei caratteri insegnati nelle scuole dell’obbligo.

Significa “errore giudiziario”.

Come quello che oggi la sezione di Tsuchiura del Tribunale distrettuale di Mito ha riconosciuto con la sentenza di non colpevolezza dichiarata nei confronti di Shoji Sakurai e Takao Sugiyama.

I due erano stati accusati della rapina con omicidio ( 強盗殺人 ) avvenuto nel 1967 nella provincia di Ibaraki, e condannati nel 1970 all’ergastolo. Le prove a sostegno della condanna erano state la loro confessione e un testimone oculare che aveva dichiarato di aver visto le due persone nei pressi del luogo del delitto. Nonostante la ritrattazione della confessione in primo e secondo grado di giudizio, la Corte Suprema aveva confermato nel 1978 la condanna sostenendo l’attendibilità della confessione.

I due erano stati rilasciati con sospensione condizionale della pena ammessi alla liberazione condizionale nel 1996, ma la loro battaglia giudiziaria non era evidentemente finita.

Nel settembre 2005 il Tribunale di Mito accettava la seconda richiesta di revisione del processo, confermata nel dicembre 2009 dalla Corte Suprema. Il processo, iniziato nel luglio 2010, sarebbe dovuto arrivare a sentenza il 16 marzo 2011 ma a causa del terremoto dell’11 marzo la sentenza è arrivata soltanto oggi.

Salgono così a 8, dal 1946, le persone in Giappone condannate alla pena di morte o all’ergastolo e dichiarate non colpevoli in seguito a revisione del processo.