La mentalità giuridico-legalista dei giapponesi

Leggete questo pezzo, che descrive come alcune persone in Giappone, per la colpa di essere nate da genitori non sposati e che per una serie di motivi non hanno registrato ufficialmente la propria nascita agli uffici comunali, nel registro di famiglia, sono sostanzialmente prive di alcuni tra i diritti più elementari.
Il fatto che i loro genitori non abbiano seguito la legge fa sì che questi soggetti non possano ottenere certificati di nascita, di residenza, e di conseguenza non possano aprire un conto in banca, prendere la patente, ottenere un passaporto, con tutte le conseguenze sul piano sociale, lavorativo, etc… che si possono immaginare.
Si tratta di persone in carne ed ossa, che  sono vive e respirano, parlano, si presentano agli uffici dell’anagrafe, ma poiché mancano alcuni timbri e iscrizioni sul koseki, il registro di famiglia, è come se non esistessero. Invisibili.

Pensateci un attimo, e poi pensate a chi parla della mentalità giuridica sottosviluppata dei giapponesi. Al contrario, qui io vedo il trionfo di un tipo di legalismo burocratico, che fa della legge un idolo indiscutibile e immutabile.

Forse qualcosa si muove, oltre all’attivismo citato nell’articolo, anche nelle aule giudiziarie.
La Corte Suprema esaminerà due casi in tema di diritto di famiglia, in composizione plenaria, il 4 novembre 2015.
Il primo sulla possibilità per tutti gli individui sposati di mantenere il proprio cognome: ora questo è un privilegio che spetta solo alle coppie in cui un coniuge non è di nazionalità giapponese. Nel matrimonio tra due giapponesi infatti, uno dei due, nei fatti di solito la moglie, deve perdere il proprio cognome per acquistare quello dell’altro coniuge (art. 750 c.c. Jpn). La sua persona viene cancellata dal registro di famiglia dei genitori, andando così a finire sul nuovo registro di famiglia, cioè quello del coniuge che ha mantenuto il cognome, il capofamiglia.
Il secondo caso verte sulla disposizione del codice civile che impedisce alla donna divorziata di risposarsi prima che siano passati 6 mesi dal divorzio (art. 733 c.c. Jpn).
Le sentenze potrebbero arrivare entro l’anno.

Questo rapporto di paternità non si può registrare

Il disturbo dell’identità di genere (di seguito, DIG) è una condizione in base alla quale una persona si identifica con il sesso opposto al proprio sesso biologico.
Nel 2003 il Parlamento giapponese approvava la Legge sui casi particolari per il trattamento delle persone affette da DIG (L. 111/2003, 性同一性障害者の性別の取扱いの特例に関する法律 ).

La legge definisce “individuo affetto da DIG” l’individuo che si identifica psicologicamente con il sesso opposto a quello biologico, e che abbia intenzione di vivere secondo il sesso con cui si identifica psicologicamente. Per riconoscere il DIG è necessario richiedere un esame medico. Almeno due medici che abbiano sufficiente conoscenza ed esperienza devono diagnosticare in maniera conforme la discordanza tra l’identità sessuale naturale e l’identità psicologica (art. 2).
Sulla base di queste diagnosi, il Tribunale di Famiglia può approvare il cambiamento di registrazione del sesso dell’interessato presso gli uffici dell’anagrafe, a patto che il richiedente soddisfi tutte le seguenti condizioni: a) il richiedente è maggiore di venti anni; b) non è sposato; c) non ha figli minorenni; d) non ha gonadi, o avendole, esse hanno perduto per sempre la propria funzione; e) ha un apparato genitale che presenta un aspetto simile a quello del sesso opposto (art. 3).
Ove il Tribunale renda una decisione in base agli articoli precedenti, il sesso del richiedente è considerato, a tutti gli effetti di legge e fatta eccezione per casi particolari espressamente stabiliti, modificato nel senso del nuovo sesso. La modifica non influenza i rapporti ed i diritti e doveri sorti prima del riconoscimento del cambio di sesso (art. 4).

È notizia di qualche giorno fa che gli uffici della circoscrizione di Shinjuku (Tokyo) non avevano accettato l’iscrizione nei registri di famiglia del rapporto di paternità in capo a un uomo di 30 anni, nato donna. Il soggetto aveva seguito le procedure di legge per diventare legalmente uomo. Aveva in seguito sposato la propria compagna, che usando sperma donato aveva portato a termine una gravidanza.
Gli uffici dell’anagrafe avevano rifiutato la registrazione del marito della madre come padre del bambino perché il padre era chiaramente incapace di procreare. Non poteva dunque valere la presunzione di paternità prevista dal codice civile per i figli nati da coppia sposata (art. 772 「妻が婚姻中に懐胎した子は、夫の子と推定する」”Si presume che il figlio concepito dalla moglie durante il matrimonio sia figlio del marito”).

Il Tribunale di Tokyo ha confermato la decisione degli uffici. Il figlio è quindi figlio illegittimo, e la casella del padre nel registro di famiglia è rimasta vuota.

Commento personale: mi pare che la cosa non regga dal punto di vista della logica.
Una volta che la legge ammette il cambio di sesso e riconosce la parità di fronte alla legge [su questo punto si possono avere idee diverse ma non è questo il punto in discussione qui], bisogna accettarne le logiche conseguenze. Il figlio di una donna sposata è figlio legittimo della donna e si presume del di lei marito. Mi pare insomma una discriminazione, stando così le cose.
Secondo il giudice Yoshiki Matsutani ( 松谷 佳樹 ) invece la decisione non è contraria alla Costituzione, perché è evidente che nel caso in questione non si possa presumere che il marito sia padre del bimbo. Anzi, il giudice si spinge fino a suggerire alla coppia di adottare il figlio in modo da poterlo rendere figlio legittimo e godere del regime giuridico dei figli legittimi.
E salvare la faccia all’ordinamento giuridico.

Sulla legge sul DIG, vedi anche M. Tanamura e K. Yangwhan, “Family law”, in Waseda Bulletin of Comparative Law 24 (2004), p. 42.