Sesta puntata della serie dedicata alla litigiosità nell’Arcipelago.
13. Prestiti universitari sub-prime, o come imparare a indebitarsi
La JASSO è nota agli studenti, giapponesi e non, perché eroga le 奨学金 shogakukin. Come messo a fuoco in questo articolo, shogakukin si traduce in inglese “scholarship”, in italiano “borsa di studio”, ma se per gli studenti non giapponesi invitati a studiare sull’Arcipelago la shogakukin è una somma destinata a sostenere le spese dello studente, e non sarà restituita, per gli studenti giapponesi essa è una somma da restituire, cioè un prestito, concesso senza interessi ai meritevoli e disagiati, agli altri al tasso del 3%.*
Nel 2011 sono stati 1.270.000 gli studenti giapponesi che hanno ottenuto una shogakukin/prestito. Il problema è che, con il deteriorarsi del quadro economico non tutti gli (ex)studenti riescono a restituire il denaro preso in prestito.
E allora JASSO li cita in giudizio: nel 2006 JASSO aveva citato 547 studenti, nel 2011 sono stati 4.832 gli studenti citati.
* Da qui la serie di incomprensioni che affliggono gli studenti stranieri in Giappone che si presentano, cercano casa etc… Quando richiesti dei propri mezzi di sussistenza, di solito si risponde “shogakukin“, alché i giapponesi pensano che sia un prestito, pensano “questo dovrà restituire questi soldi prima o poi = questo ha finanze instabili o se ne torna nel suo Paese senza restituire i soldi”. Consiglio: usare kyuryo, “stipendio”, che è meglio.
14. La Corte Suprema su un suicidio per pawahara
Se il titolo vi lascia spaesati, cosa sia il pawahara è spiegato qui.
Il 22 febbraio il Secondo Collegio ristretto della Corte Suprema ha deciso una controversia promossa dalla vedova di un uomo che si tolse la vita nel maggio 2002 a causa di mobbing sul lavoro.
Il problema in questi casi è se inquadrare la vicenda come morte sul lavoro, anche se l’atto non sia prima facie collegabile al posto di lavoro. Non è detto infatti che il suicidio avvenga in orario di ufficio, anche se le motivazioni sono da ricercare nella situazione lavorativa. Si può ipotizzare anche il caso contrario: dubito che un impiegato che si togliesse la vita in orario di ufficio per una delusione amorosa potrebbe veder riconosciuta la sua morte come morte sul lavoro.
La qualificazione rileva ai fini del risarcimento ai familiari ed eredi della vittima: in caso di incidente sul lavoro ad essi spetta un risarcimento.
L’Alta Corte di Nagoya aveva riconosciuto la morte dell’uomo come morte sul lavoro, per le pressioni subite dall’uomo, che era caduto in depressione. L’ente che amministra i risarcimenti non era d’accordo e presentò ricorso alla Corte Suprema, che ha rigettato nel merito il ricorso e confermato la decisione dell’Alta corte di Nagoya.
Stranamente, la sentenza non è ancora sul sito della Corte Suprema.