Can’t touch this!

Il 15 luglio scorso l’Alta Corte di Tokyo ha compiuto qualcosa di insolito: ha accolto in appello la richiesta di un soggetto condannato in primo grado e riformato la sentenza, dichiarando il soggetto innocente.

Il caso in questione riguardava una circostanza nota a chi abitain Giappone, e che giustificala presenza di carrozze destinate alle sole donne sulla metropolitana: il fenomeno dei chikan (痴漢).

Sugli affollatissimi mezzi pubblici giapponesi lo spazio vitale è ridotto al minimo, e spesso ci si trova a viaggiare schiacciati addosso agli altri passeggeri. Questa situazione rende il contatto fisico inevitabile, e c’è chi ne approfitta per appoggiare le mani dove non si dovrebbe, in particolare sul fondoschiena delle passeggere: una condotta ovviamente perseguibile ai sensi della legge.

Nonostante il problema sia reale e non vada minimizzato, ci sono stati svariati casi in cui le vittime si sono sbagliate, e hanno accusato persone innocenti: ed è proprio questo che pare essere successo anche in questa circostanza che ha portato l’Alta Corte a riformare la sentenza.

Il fatto è avvenuto su un bus: il sospettato, un insegnante di 30 anni, stava utilizzando il suo smartphone con la mano destra e si reggeva al sostegno con la mano sinistra (come la telecamera di sicurezza del bus ha mostrato). Una studentessa davanti a lui si è sentita toccare il sedere e ha accusato l’insegnante di averla palpata. In realtà, pare che semplicemente la borsa a tracolla del sospettato abbia urtato la ragazza.

In primo grado il tribunale ha creduto alla presunta vittima, sostenendo che, sebbene difficile, non sia impossibile toccare una persona mentre si hanno le mani occupate. Il giudice di appello, invece, ha riformato la sentenza, criticando duramente la decisione del tribunale: in giudizio la prevalenza va data alle evidenze documentali, soprattutto se contraddicono le mere testimonianze (qui un breve resoconto).

Il fatto è avvenuto nel dicembre 2012. Nel frattempo, l’insegnante è stato sospeso dal suo lavoro per via dell’accusa. Un caso molto simile è descritto nel famoso film Soredemo boku ha yattenai (Andrea ne ha parlato qui).

Il dibattito sull’argomento è molto acceso in Giappone. È infatti difficile trovare un equilibrio fra la giusta persecuzione di un crimine odioso, sottile e molto diffuso come quello dei chikan e il far dipendere la vita di una persona (lavoro, reputazione, ecc) da una semplice evidenza testimoniale.

Si narra di una gang di ragazze di Osaka che ricattava i salaryman sui mezzi pubblici: 10.000 yen oppure grido che sei un chikan. Non trovo però più la fonte della notizia, e quindi mi astengo dal commentare ulteriormente (per evitare la sindrome del “mihadettomiocuggino” così diffusa tra gli stranieri in Giappone).

Diritto, legge e giustizia al cinema

Settimane fa alcuni giornali hanno riportato che, come conseguenza dei regolamenti contro la yakuza di cui abbiamo parlato un paio di volte, la società di produzione Toei ha dichiarato che non si servirà più di membri della yakuza per i film sulla yakuza.

“I film e la realtà sono due cose diverse”

In realtà, tale affermazione non è del tutto convincente.
Innanzitutto, il fatto che oggi si dichiari che i membri della yakuza non saranno più scritturati, equivale a dire che fino a ieri gli yakuza comparivano nei film.
Inoltre, come sostiene Diego Gambetta nel suo ultimo, interessantissimo, libro Codes of the Underworld – How Criminals Communicate, il rapporto tra arte e realtà della criminalità organizzata non è a senso unico, nel senso che solo l’arte cerchi di rappresentare il mondo della malavita. Il rapporto è a doppio senso: se da una parte è indubitabile che l’arte imita la realtà, d’altra parte sono gli stessi gangster che talvolta prendono spunto dalle opere che parlano di loro e del loro mondo per modellare i loro comportamenti e comunicare sia tra di loro, che con il resto della società.

In Giappone il filone di film sulla yakuza è stato fiorente, anche se ora è in declino. Questi film hanno sicuramente dei risvolti interessanti sotto il punto di vista del diritto e della sociologia giuridica, ma non è del filone classico dei film sulla yakuza che voglio parlare in questo post.
Il tema di oggi sono 3 film giapponesi in cui si vedono rappresentazioni del diritto e della giustizia sullo schermo.

1. Minbo no onna

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Il 22 maggio 1992, sei giorni dopo l’uscita di questo film, il regista Juzo Itami fu accoltellato da 5 membri della yakuza. Sopravviverà, ed i suoi assalitori saranno condannati.
Il 20 dicembre 1997 Juzo Itami viene trovato morto, sfracellato al suolo ai piedi di un palazzo. Wikipedia contiene dettagli presi da Tokyo Vice di Jake Adelstein sulle ipotesi intorno alla sua morte, che rimane tuttora un episodio poco chiaro.

Minbo no onna è un film sulla yakuza, ma a differenza dei film del filone classico, in cui i gangster sono dipinti anche con i tratti propri degli eroi, nel quadro nostalgico di una società preindustriale dove i gangster incarnano i tratti e la moralità dei samurai, questa è una commedia e l’eroe è una donna. Una donna avvocato. Che, come si vede nel trailer, non ha paura dei gangster e usa l’astuzia e gli strumenti della legge per difendere sé ed il suoi clienti dalle piccole e meno piccole estorsioni di cui vivevano gli yakuza nei primi anni 1990.

I gangster al contrario sono rappresentati come delle macchiette ridicole e meschine, e sono messi a nudo i trucchi ed i meccanismi psicologici su cui fanno leva.
Il film è in sostanza un lungo appello alla cittadinanza a resistere, a non farsi intimidire, e a rivolgersi quando necessario alla legge.
Non stupisce che qualcuno non abbia gradito e abbia cercato vendetta.

2. Soredemo, boku ha yattenai

Il titolo significa: “E comunque, non sono stato io”.
Il sottotitolo recita: “Questo è il processo”.

La vicenda è ispirata a una storia vera, e narra del giovane di cui sopra che un giorno viene accusato da una liceale di molestie sessuali in una carrozza affollatissima della metropolitana ( 痴漢 chikan). Seguono arresto, custodia cautelare, interrogatori e tutte le fasi tipiche della giustizia giapponese, ivi compreso il tentativo degli inquirenti di estorcere la confessione.
Un film assai critico dell’amministrazione della giustizia in Giappone, che ha avuto un discreto successo di critica e pubblico.

3. Shoji to Takao

Di Shoji Sakurai e Takao Sugiyama avevamo parlato nel primo vero post di Il diritto c’è ma non si vede, e più recentemente qui.

Non sapevo che su di loro fosse stato girato un film. Il blog sul cinema giapponese Sonatine ne ha scritto una breve recensione:

Ventinove anni sono una vita. La società, le culture  e le persone cambiano e si evolvono in un lasso di tempo così lungo. Ebbene, privare una persona di questa ricchezza, di questa abbondanza, anche drammatica, di vita è un crimine imperdonabile. Succede che nel 1967 Sugiyama Takao e Sakurai Shōji siano arrestati e successivamente giudicati colpevoli di un furto e dell’assassinio di un uomo nella piccola città di Fukawa. Non esattamente due stinchi di santo… → continua sul blog Sonatine

Qui il sito ufficiale del film, e qui sotto il trailer:

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=heUtzp2gqH8]

Ho visto i primi due, quest’ultimo ancora mi manca, e anzi, grazie a Sonatine per il suggerimento.