Straordinario!

Straordinario!

Il Tribunale distrettuale di Tokyo ha compiuto un altro passo nel riconoscimento dei danni da karōjisatsu, ossia da suicidio da troppo lavoro. Il caso riguardava un lavoratore ventiquattrenne di una nota catena di bisteccherie, il quale si era tolto la vita dopo aver effettuato più di 200 ore di straordinario mensile. Il 4 novembre la Corte di Tokyo (pres. Yamada) ha pronunciato sentenza a favore della famiglia, condannando il datore di lavoro a pagare 57.900.000 yen (al cambio attuale, circa 413.000 Euro) di risarcimento in sede civile.

La sentenza ha avuto grande eco sulla stampa nazionale (ad esempio qui) e internazionale (ad esempio, qui).

La sentenza sembra porsi in linea con il noto leading case in materia, la decisione della Corte Suprema del 24 marzo 2000 sul caso 1998 (o), nn. 217, 218, Minshū, Vol. 54, No. 3, at 1155, conosciuta agli studiosi di lingua inglese come Dentsū Karoshi Case (impropriamente, visto che anche quello era un caso di karōjisatsu). Anche in quella circorstanza, un giovane lavoratore aveva accumulato uno straordinario mostruoso, anche in quel caso lo stress lo aveva portato al suicidio e anche il quel caso il datore di lavoro era stato condannato per l’omesso intervento dei propri dirigenti.

La giurisprudenza giapponese in materia è stata ed è tuttora piuttosto oscillante. Come riferito anche dal titolare di questo blog Andrea Ortolani qui  ci sono state molte decisioni sfavorevoli alle famiglie dei lavoratori.

Il problema è prevalentemente probatorio: quando troppo lavoro è legalmente “troppo” (su questo i criteri del Ministero non sembrano soddisfacenti)? Deve il lavoratore rifiutarsi di fare straordinari oltre il limite di legge (e quindi scegliere di porsi in contrasto con il datore di lavoro)? Come valutare eventuali predisposizioni psicologiche alla depressione?

Tre notazioni ulteriori paiono di interesse: la prima è che la sentenza della Corte Suprema del 2000 riguardava il caso di un lavoratore altamente qualificato che svolgeva un lavoro intellettuale, quella del 4 novembre un addetto di una catena di ristoranti. Speriamo che questo sia il preludio all’accoglimento, da parte delle corti giapponesi, di una nozione espansiva di stress da lavoro, non necessariamente legato alla difficoltà o al contenuto dei compiti assegnati.

La seconda è che la giurisprudenza giapponese conferma un approccio “europeo” alla questione dei risarcimenti, riconoscendo cifre non indifferenti, ma certamente lontane dai punitive damages dell’esperienza americana e riaffermando principio codicistico del divieto di arricchimento del danneggiato.

La terza è che le catene di ristoranti si confermano contesti difficili dove lavorare: senza voler fare generalizzazioni, è noto che la peggiore “black company” è da due anni consecutivi una nota catena di izakaya.

L’auspicio è che i giudici giapponesi possano vincere le titubanze, stabilire criteri chiari ed efficaci a tutela del lavoratore e seguire le linea tracciata da questa sentenza, in modo che i datori di lavoro, colpiti duramente sul portafoglio, cessino di imporre ai propri dipendenti condizioni insostenbili oltre che illegali.

P.S. per un approfondimento (noioso e dall’approccio leguleio) sull’argomento, ne ho scritto qui

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