Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (VI)

Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (VI)

17 novembre 2009

– Par ailleurs, la propriété – plus que tout autre droit – se compose de…

È Kawada che inizia oggi. Legge, o meglio presenta, la sua versione, ed il professore lo incalza a partire dalle prime parole:
– Par ailleurs? Non va bene tradurre sara ni, «ailleurs» si riferisce un altro luogo, indica un cambiamento di discorso.
Tahô?
– Esatto, tahô.

La versione italiana non registra questo «d’altra parte», e mi chiedo fino a quanto sia necessario attenersi al testo con scrupolosa fedeltà, quando nemmeno l’autore lo fa nelle sue due versioni, e dove sia il confine tra una traduzione bella e fedele, ed una traduzione senza aggettivi. La discussione continua e il professore accenna ai problemi di traduzione di «administration publique» in giapponese:
– È un’espressione difficile da tradurre… Viene spesso resa con «kôgyôsei», ma non è una traduzione corretta… in realtà, questa parola «kôgyôsei»… non capisco nemmeno io cosa voglia dire, non so che significato abbia.
Un attimo di silenzio, spaesamento generale, poi Nakajima:
E-tto… ma allora come si traduce administration publique?
– Va bene gyôsei, da solo.

E ancora problemi terminologici sulla «propreté» dei viali:
Seiketsu non suona tanto bene… in effetti, stranamente non ci sono espressioni in giapponese… non va bene kirei, forse tansei, scritto hajikko e tadashii. Però…
…e inclina il capo accennando un sorriso. In sostanza, il messaggio è che nessuna traduzione è convincente.

Tocca a me con una domanda. Si tratta delle panchine, che tutti traducono con «benchi» (si legge in modo da rimare con «aranci»), cioè il prestito dall’inglese «bench». I miei dubbi sono questi: siamo d’accordo che «sedia» si traduce «isu», ma come chiamavano le panchine i giapponesi prima del contatto con l’Occidente? Certo, in Giappone ci si siedeva, si mangiava, si dormiva sul tatami, per cui un tempo l’intera superficie di casa, o del tempio, era tutta un grande spazio ove sedersi o sdraiarsi, per cui quale bisogno c’era di panchine? La cosa però rimane un po’ diversa, ai miei occhi di occidentale. Il fatto che si usi un prestito dall’inglese vuol dire che non vi erano panchine nel Giappone Tokugawa? La domanda, che per me è importante, non smuove più di tanto i miei colleghi. Qualcuno accenna al fatto che forse i giapponesi non gradissero sedersi uno a fianco all’altro, ma – e la cosa mi rincuora non poco – l’ipotesi non suscita reazioni di approvazione, finché Hashimoto scova un termine giapponese: koshikake. Tutti annuiscono con una certa convinzione, ma una rapida consultazione del mio dizionario non dissipa i miei dubbi, ed in particolare non chiarisce se quel termine indichi un sedile rustico adatto a far sedere più persone oppure, più in generale, un qualsiasi mobile sul quale si possano appoggiare (kake) i fianchi (koshi) – mentre in italiano la differenza tra panca o panchina da una parte, e sedia dall’altra, è netta. Il dubbio rimane, ma forse devo solo accettare il fatto che i giapponesi di un tempo non ritenevano importante distinguere un mobile destinato all’uso singolo da un sedile allungato e ideato per farvici sedere più persone. Forse, qualsiasi sedia, sedile, panca, panchina, poltrona, seggiola era semplicemente una «isu».
Ma poi penso che questo è un problema da un nonnulla, quando penso ad altri termini di quella stessa lingua, che hanno significati di cui non riesco proprio a trovare un nucleo semantico comune. Ad esempio, prendiamo saki, che, dizionario alla mano, tra i suoi dieci significati comprende «dopo» in senso spaziale e «futuro, avvenire», ma anche «all’inizio» e «prima, precedentemente, tempo fa». Cioè: tra i significati vi è un’idea ed il suo esatto contrario. Oppure, prendiamo iikagen. Il primo significato è tekido: «moderato, con misura, appropriato, al punto giusto», il secondo è ozanari: «irresponsabile, grossolano, poco serio, a casaccio», il terzo è kanari: «abbastanza», il quarto è hodohodo, di nuovo «moderato, ragionevole». Certo, il contesto aiuta, ma certe volte pare che la lingua giapponese sia solo contesto e poco, pochissimo altro. Mi chiedo se l’italiano, il francese, l’inglese, annoverino esempi del genere, ma non me ne vengono in mente. Mi chiedo se il giapponese sia tout court una lingua adatta al discorso scientifico, lasciamo perdere il mio caso personalissimo, ma anche per i madrelingua.

La lettura prosegue e ci imbattiamo in vassalli, dominium eminens, dominium directum e dominium utile. Nei giorni precedenti la lezione, quando preparo la mia versione, regolarmente alcuni episodi fanno sì che io non possa dimenticare che dipendo dal dizionario. Uno dei tanti: cerco «vassallo», il dizionario elettronico italiano-giapponese mi offre un termine composto da 2 kanji, che azzardo leggersi ryôjin. Ne cerco conferma premendo il tasto «Jump», che permette di ricercare il termine negli altri dizionari in memoria. Seleziono il grande dizionario monolingua giapponese. La parola non c’è. Annoto un appunto vicino a vassallo.

Torniamo alla lezione. Espongo il mio problema. Vassallo si può tradurre kashin oppure shinka. Ryôjin: non pervenuto.

«Balivo»: il professore spiega che corrisponde più o meno a bugyô, il governatore shogunale dell’epoca Tokugawa, anche se «balivo» non ha tutte le connotazioni relative agli «oshirasu». Anche in questo caso il discorso sottintende un carattere del tutto iniziatico. Chi volesse cercare in un dizionario il significato di oshirasu deve prima di tutto sapere che occorre eliminare la prima «o-», altrimenti, battendo «oshirasu», non si trova nulla. Questo non vuol dire che in tutte le parole che iniziano per o- questo prefisso sia da eliminare; semplicemente, occorre saperlo prima. Dunque, battendo «shirasu» nel dizionario giapponese-italiano si trova una sola voce, la cui traduzione è «bianchetti». Il comparatista che si interessa di Giappone non pensa agli avannotti di acciuga o sardina, deliziosi con salsa di soia e daikon grattugiato, ma sa che gli oshirasu sono i ciottoli bianchi che ricoprivano il suolo nella zona del palazzo del governatore shogunale riservata all’attività giurisdizionale, e sui quali si prostravano le persone di basso rango. Inoltre, nella sala degli oshirasu erano spesso appoggiati in bella vista alcuni strumenti usati per aiutare le parti a ricordare e proferire la verità, e questo ha contribuito, nel momento in cui si usa estensivamente oshirasu per indicare il tribunale, a rivestire il termine di una connotazione legata a una giustizia autoritaria che non disdegna le maniere forti, specialmente con i deboli.
Tradotto in italiano corrente: il balivo non torturava la gente.

La lezione prosegue. Si sta discutendo di etimologia, il professore cita due dizionari etimologici giapponesi, e prova a illustrare l’etimologia di due caratteri che hanno la medesima lettura hô: il «» di feudalesimo, con due terre che affiancano il segno di misurare, ed il «» di diritto, del quale il professore offre la suggestiva spiegazione che comparve persino, qualche anno fa, in una rivista italiana. La conclusione della divagazione tuttavia è: «Kekkyoku wakaranai», cioè: in definitiva, non si può dire. Mi tornano in mente saki e iikagen di poco fa, chissà cosa si potrebbe scoprire sul loro conto in un dizionario etimologico.

Sono le 11:57. La lezione finisce alle 12:00, e, a differenza dei seminari collocati strategicamente alla V ora, cioè dalle 16:50 alle 18:30, ma in cui in media si termina alle 20, in questo corso vige la regola della puntualità. La cena può attendere, il pranzo no.

Purtroppo questo passo, in cui si parla di case costruite in comune e reciprocità, è quello sul quale avrei più domande, ma viene sbrigato in pochi minuti.

Alle 12:12 la lezione finisce. Alla prossima settimana.

(puntata precedente)                                                                                                      (continua)

7 pensieri riguardo “Leggere Antropologia giuridica di Rodolfo Sacco a Tokyo (VI)

  1. お白州 [おしらす (oshirasu)] 
    Sostantivo futsuumeishi
    court of law in the Edo period, in which the parties sat on white sand

    Scomposizione dei kanji:
    Kanji: 白

    Lettura ON: HAKU, BYAKU
    Lettura Kun: shiro, shira-, shiro.i
    Significato: white

    Classificazione: Radicale: RAD_106, Grado: 1, Tratti: 5, Frequenza: 483, JLPT: N5

    Riferimenti esterni:
    Kanji flashcards: 73
    Kanji in context: 44
    Kanji dans la tête: 37
    Sakade: 37
    Henshall: 65
    Halpern: 3493
    O’Neill names: 216
    Busy people: 2.2
    Gakken: 266
    Crowley: 242
    Tuttle kanji cards: 46
    Daikanwajiten: 22678
    Kanji and kana: 205
    Henshall 3: 53
    Heisig: 37
    New Nelson: 3863
    Classic Nelson: 3095
    O’Neill kanji: 79
    Halpern kanji learners: 2175
    Kodansha compact: 1362

    Codici di ricerca: De Roo: 878, SKIP: 4-5-2, Four corner: 2600.0,Spahn & Hadamitzky: 4c1.3

    Set di caratteri:, Unicode 4.0: 767d,JIS X 208: 39-82

    Kanji: 州

    Lettura ON: SHUU, SU
    Lettura Kun: su
    Significato: state, province

    Classificazione:Radicale: RAD_2, Grado: 3, Tratti: 6, Frequenza: 386, JLPT: N3

    Riferimenti esterni:
    Kanji flashcards: 490
    Kanji dans la tête: 130
    Henshall: 304
    Daikanwajiten: 8678
    Halpern kanji learners: 39
    Halpern: 57
    Kodansha compact: 549
    Kanji in context: 553
    O’Neill kanji: 445
    Kanji and kana: 195
    Gakken: 542
    New Nelson: 1529
    Henshall 3: 320
    Classic Nelson: 99
    Heisig: 128
    Sakade: 424
    Tuttle kanji cards: 271
    O’Neill names: 224

    Codici di ricerca:De Roo: 1254, SKIP: 1-2-4, Four corner: 3200.0, Spahn & Hadamitzky: 2f4.1

    Set di caratteri:Unicode 4.0: 5dde, JIS X 208: 29-3

    Dal dizionario KOTOBA

  2. Non ho capito questo passo “Tradotto in italiano corrente: il balivo non torturava la gente”.
    Perché proprio in Europa e in Italia, il balivo è spesso citato nei processi alle streghe o nelle confessioni sotto tortura. Forse ignoro un altro significato del termine?

    1. Caro BladeVet, grazie dei commenti.
      Su “oshirasu”: non conoscevo il dizionario kotoba. Il fatto che riporti la definizione corretta di oshirasu stupisce in positivo. Ciò non cambia il fatto che nessuno tra i dizionari che consultai all’epoca dei fatti, cioè Kojien, Shogakukan Ita-Jpn-Ita ed i dizionari di Jedict per MacOs, riportava il lemma.
      Su 行政学 : il divagare partito dalle ultime righe di p. 216 del testo francese si riferiva ad administration publique come atto di amministrazione della cosa pubblica. Il suffisso -gaku, che di solito indica la riflessione scientifica su, o lo studio di una disciplina, in questo contesto non mi sembra pertinente.
      Balivo: è interessante quello che ha scritto. Mi spiace non avere il tempo di approfondire la faccenda, ma se avesse riferimenti più precisi mi farà piacere leggerli. Ad ogni modo, in quel passo riporto e traduco “in italiano corrente” il pensiero espresso dal docente sulla figura francese del bailli.

      1. Grazie della risposta,.
        Kotoba è un software per dispositivi iOs, io lo uso su iPhone/iPad rif: http://kotoba.pierrephi.net/.
        L’ho installato qualche anno fa e mi è stato di aiuto in varie occasioni in Giappone. Il software è stato aggiornato molte volte nel corso del tempo, ho notato solo qualche giorno fa che l’attuale versione riesce a tradurre anche i verbi/aggettivi coniugati, mentre prima era necessario scrivere la forma piana da dizionario. Intendo dire che, forse, il fatto che venga riconosciuto e di conseguenza tradotto Oshirasu non è necessariamente indice che questa è la forma “da dizionario”. Per amministrazione pubblica mi sono riferito sempre al medesimo dizionario, so che gaku da più una connotazione di studio sulla cosa, che suona come studio dell’amministrazione, d’altra parte altre traduzioni avrebbero connotato in distretto amministrativo o governo che non è esattamente l’amministrazione pubblica.
        Dei balivi ricordo di aver letto qualcosa sulla storia di qualche cantone svizzero, in cui appunto si facevano processi alle streghe e in riferimento alla repubblica di Venezia, ma sono ricordi per cui nulla di attendibile.

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